“Zelo zelatus sum pro Domino Deo exercituum”(1Re 19, 10.)
La storia dei “cercatori di Dio” è sovente attraversata da paralizzanti (cogenti) delusioni e da esperienze amare che impongono domande sul senso della propria presenza, della perseveranza e della permanenza in un determinato contesto, tanto più se questa esperienza ci fa attraversare il deserto dell’anima e dell’incomprensione.
L’esperienza del profeta Elia, narrata nel primo Libro dei Re, può essere considerata paradigmatica per la vita di ognuno di noi! Dopo aver passato a fil di spada i profeti di Baal, Elia si ritrova braccato da Gezabele, che giura di fare la stessa cosa con lui. Allora il Profeta fugge nel deserto e sedutosi sotto un ginepro, desideroso di morire, dice: “Ora basta Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. Quando però pensava di mettervi un punto, ecco che l’angelo del Signore ridesta Elia e, invitatolo a mangiare, gli ricorda che il cammino è ancora lungo e dovrà camminare per quaranta giorni e quaranta notti per raggiungere il monte di Dio, l’Oreb. Elia si nasconde in una caverna ma, sarà Dio a sorprenderlo e a porgergli la domanda terribile che lo interroga sul motivo della sua modalità esistenziale, nascosta appunto! «Che fai qui, Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita».
Già, che senso può avere continuare un percorso nel quale ci si ritrova da soli, magari si è guardati con sospetto, perché si è scelto di consacrare e di offrire la propria esistenza a Dio nel culto e nella preghiera, in una continua tensione verso l’Eterno, o quando la società secolarizzata “del fare” t’invita ad andare con i “Baal” del nostro tempo e ad abbandonare ogni segno della visibilità della propria consacrazione battesimale che ci ricorda la nostra appartenenza a Dio?
Per noi Oblati secolari questa tentazione è ancora più forte poiché spesso, minacciati di cedere alla fascinazione (illecebra) del secolo, rischiamo di rimanere disarmati quando ci viene chiesto dagli altri, o dalla nostra stessa coscienza “che fai qui?” Bisogna a questo punto, sorretti da quegli strumenti delle buone opere, indicati dal nostro santo padre Benedetto, costruire quella coscienza che ci faccia trovare e proclamare, soprattutto attraverso la Liturgia, la stessa risposta che Elia dà alla domanda posta da Dio: “Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti.” (cfr. 1Re 19, 10)
Danilo Mauro Castiglione